U come Umorismo

Freud, a proposito dell’umorismo, dice che è “il trionfo non solo dell’io, ma anche del principio del piacere che qui sa affermarsi contro le avversità delle circostanze reali”.
E individua, semplificando moltissimo, tre cause principali del ridere.
La prima è il sollievo: sorrido perché sono contento non sia successo a me.
Ecco perché da migliaia di anni ridiamo dei poveri cristi; dai buffoni di corte con gravi deformità fino alle compilation di incidenti mortali su tv e social rimontati rigorosamente con musichetta divertentissima che sostituisce l’audio originale fatto di urla belluine, rumore di ossa rotte e clangore metallico che fanno un po’ troppo libro di Ballard.
La seconda, se possibile, è ancora più inquietante ed è legata alla “coazione a ripetere”; la risata è sostanzialmente una forma di nevrosi ripetitiva che mettiamo in atto involontariamente per rassicurarci e liberarci dalla paura; principalmente da quella della morte.
Certi comici e i loro tormentoni effettivamente fanno veramente morire dal ridere. Soprattutto se Dio t’ha fatto gibbone dalle mani bianche.
La terza, finalmente, ha cause un po’ più nobili ed è legata al piacere intellettuale del riuscire a decodificare una battuta non immediata. Tipico questo di chi, invece di sbellicarsi dalle risate, si limita a un “oh oh oh” di autocompiacimento.
Ebbene noi fino a qualche mesetto fa appartenevamo a quest’ultima categoria.
Battutone dottissime sull’arte, la storia, la politica. Era tutto un profluvio di “oh oh oh” e mini pacche sulle spalle a segnare la nostra superiorità intellettuale, il nostro cervello sveglio e il nostro livello culturale superiore. Spettacoli di stand up comedy delle nuove leve, serie tv di avanguardissima dagli Archer ai Bojack Horseman con attenzione alta anche a livello internazionale, e così si partiva dai monologhi di Gervais fino alla infinita cattiveria delle Laura Laune; e tutto in lingua originale. E poi settimane enigmistiche, cruciverboni di Bartezzaghi inzeppati di freddure alla Monty Python, black humor (“che non si può ridere di tutto e di tutti ma ci si può provare” per citare quell’altro allegrone di Nietzsche), vignette del New Yorker e disegnatori argentini fan di Fellini alla Macanudo.
Poi a un tratto capisci che se pronunci la parola pupù allungando e alzando il tono di un paio di ottave sulla seconda “U” tuo figlio si sbellica dalle risate.
Pupù. Pupuuuù. Pupuuuuuuuù.
E, con buona pace di Freud e delle sue categorizzazioni, scopri di non essere mai stato così felice in vita tua.





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